Anti-storytelling

Il bisogno umano di anti-storie

Media Art:

Prima di approcciarmi alla scrittura di questo testo, ho speso diverso tempo a chiedermi che cosa sia l’anti-storytelling, non solo cercando di collocare questa parola all’interno del mio vocabolario personale, ma anche cercando di capire che cosa essa significa all’interno della storia dell’arte occidentale.
Senza pretese di offrire un’unica e assolutistica definizione, spero altresì che questo articolo possa far nascere riflessioni e dibattiti costruttivi.
L’anti-storytelling è, in primo luogo, una destrutturazione dei linguaggi tradizionalmente e ufficialmente intesi. Un’istanza che va contro le leggi di un dato sistema presente in un preciso periodo storico. Di conseguenza, anche l’Impressionismo è stato anti-storytelling, come tutte, ovviamente, le Avanguardie Storiche.
Sebbene ora siamo tesi a vederne solo le istanze estetiche, ciò che probabilmente muove l’anti-storytelling è qualcosa di più profondo, qualcosa che ha (e che deve avere) a che fare con aspetti politici, sociali e morali.

Cezanne mont saintevictorie

 

La struttura dell’anti-storia

Nel precedente articolo abbiamo visto brevemente quali sono le prerogative di una storia scritta con il metodo classico. Ma quali sono quelle tipiche di un’anti-storia?
Detto con un luogo comune, la sua regola è quella di infrangere tutte le regole, contraddicendo l’idea stessa di principio formale.
L’anti-storia non ha una trama, non prevede nessun arco narrativo né lo sviluppo del personaggio. Sebbene anch’essa abbia una sua propria logica e struttura interne, non racconta, appunto, una storia. Ma ci può toccare emotivamente e raccontare comunque qualcosa.
Sin da subito, accanto alla necessità di un metodo classico di racconto (e di “fare arte”) è nata la necessità di andare contro questa corrente, ribaltando ogni punto fermo: si pensi, per esempio, a Virginia Woolf, James Joyce, Samuel Beckett, William S. Burroughs, oppure all’Espressionismo, al Cubismo, al Dadaismo (per citare autori e correnti artistiche più famose), al Nouveau Roman (Marguerite Duras, Alain Robbe-Grillet…) o al cinema di Alain Resnais.

Pablo Picasso Les demoiselles d'Avignon

In scrittura o nel cinema anti-storia, la vita rappresentata non è metafora della “vita così com’è”(come succede nella struttura classica) ma piuttosto “così come la si pensa”: gli eventi spesso sono a-temporali, caotici, frammentati e accidentali; mentre i personaggi non hanno nemmeno una psicologia così identificabile.
Tuttavia, anti-storia non significa “rappresentare cose a casaccio a discrezione dell’artista”: infatti, ogni anti-storia ben costruita ha una sua unità formale, che tiene insieme tutto il racconto e che in qualche modo lo rende coerente nella sua incoerenza.
Non importa quale tecnica formale venga utilizzata, perché la necessità artistica è comune: quella, da parte dell’autore, di ritirarsi nel suo mondo interno e aprendo, allo stesso tempo, una finestra per chi avesse voglia di affacciarvisi. Ma con discrezione.
Questa necessità da parte dell’artista comporta però, inevitabilmente, un assottigliamento del pubblico. Non tutti, infatti, hanno voglia di stare ad ascoltare quello che una storia del genere ci può voler dire. Il motivo è semplice. La ragione umana funziona come funziona il modello classico di racconto: ovvero per eventi che si susseguono in maniera lineare, consequenziale, causale e deterministica. La trama classica mostra come le cose succedono nel mondo: come ad ogni causa si sussegua un effetto e come questo diventi a sua volta una causa che scatena a sua volta un altro effetto. Rafforza la necessità umana di credere che gli eventi accadono per motivi spiegabili e significativi secondo un disegno riconoscibile e, in qualche modo, prevedibile.
Invece l’anti-trama sostituisce la causalità con la coincidenza, senza mostrare alcun appiglio al quale aggrappare le nostre insicurezze.

Alain Robbe-Grillet, uno degli esponenti del Nouveau Roman, riteneva che fosse la forma il luogo in cui cercare il contenuto vero di un’opera, non l’aneddoto in sé. Nel romanzo, dunque, per lui ha più importanza il tempo grammaticale, il ritmo della frase, il lessico scelti rispetto alla trama perseguita.
Ciò che ha cercato di costruire, insieme ad Alain Resnais, con il capolavoro L’année dernière à Marienbad (1961), sono uno spazio e un tempo puramente mentali, senza focalizzarsi troppo su connessioni cronologiche e causali. I due autori hanno riflettuto sull’andamento della mente umana, come essa proceda in maniera non lineare, ora più veloce ora più lentamente, come alle volte torni indietro e poi subito dopo faccia balzi in avanti, come essa registri eventi ininfluenti e come ne tralasci altri apparentemente molto più importanti…
Hanno scritto di un tempo mentale, fatto di pieni, di vuoti, di ossessioni e zone oscure, un tempo che è quello delle passioni, del sentire, della realtà intima della nostra vita.
E qui mi ricollego allo statement che caratterizza la ricerca di Bill Viola: “No beginning / No end / No direction / No duration. Video as mind”.

Alain Resnais L’année dernière à Marienbad

Alain Resnais, L’année dernière à Marienbad, 1961

 

Che cosa possiamo dire dell’anti-storytelling oggi?

Voglio fare un ultimo salto indietro nel tempo e accennare brevemente a una figura molto importante e forse ancora poco conosciuta. Credo abbia il potere di generare molti spunti ai quali fare riferimento per capire quali significati possa e debba avere l’anti-storytelling oggi.
Mi scuso in anticipo se non riesco a garantire lo spazio che necessita per delinearne la complessità e profondità; e sarei felice se qualche lettore voglia poi ricercare le sue opere in un secondo momento. Sto parlando di Guy Debord.
Guy Debord nasce a Parigi il 28 dicembre 1931. Nei primissimi anni ’50 si avvicina alla corrente artistica del Lettrismo, per poi staccarsene quasi subito e fondare nel ’52 l’Internazionale Lettrista. Infine, nel ’57, l’Internazionale Situazionista.
Quasi tutta la sua opera gira intorno al concetto di détournement, un processo di appropriazione di immagini, suoni, testi non originali e di un loro svuotamento di senso originario, immettendoli in un contesto altro in cui questi acquisiscono significati nuovi. Una sorta di “collage in movimento”.
La teoria, o, se vogliamo, la politica, su cui si basa questa pratica è la risposta a quella che lui definisce Società dello Spettacolo, termine che dà il nome sia a un suo film del 1973 che al suo saggio più famoso.
Secondo l’autore:

“Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini”

e ancora,

“Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”

Per Debord quindi, tutto ciò che è spettacolo “è da distruggere

Guy Debord Società dello spettacolo

Per lui, l’unico modo di comunicare deve essere attraverso opere che siano incompatibili con l’economia dello spettacolo, quindi anti-spettacolari.
E lui lo fa, dapprima, combattendo lo spettacolo con le sue stesse armi: le immagini. Immagini però svuotate di senso, come abbiamo detto prima, ri-immesse in un contesto nuovo, facendole proprie, stornandole per poter fare i propri assunti teorici.
E lo fa, dopo, sparendo completamente dalla circolazione, proibendo la visione pubblica di tutti i suoi film. Lo fa attraverso il silenzio.
Ma l’opera che forse ci può dare più da pensare partendo dal contesto in cui viviamo oggi, è il suo primo film, Hurlements en faveur de Sade (1952), della durata di un’ora e un quarto. Completamente privo di immagini. Accade solo un’alternanza di schermo bianco e schermo nero. Per tutta la durata del film. Quando parla qualcuno lo schermo è di un bianco accecante, quando non parla nessuno, lo schermo rimane nero. Nell’arco totale del film, la parte di luce e parole non dura più di venti minuti. In questo film Debord ha probabilmente sentito la necessità di fare tabula rasa, tirare una linea su tutto quello che è stato il cinema fino a quel momento, di fare il “quadrato bianco su sfondo bianco”, con lo stesso spirito di Malevic.

Guy Debord Hurlements en faveur de Sade

Guarda Hurlements en faveur de Sade

E qui chiudo con una domanda, che non vuole essere troppo provocatoria quanto sincera: è giunto forse il momento di fare tabula rasa un’altra volta? Di eliminare del tutto le immagini, e ritornare allo schermo nero, ovvero al silenzio? Anti-storytelling significa anche radicalità: e con essa il rischio di non essere considerati.

Irene Toniolo
Regista e Artista Visuale

 

Bibliografia:

Robert McKee, Story, Methuen Publishing, 1999

Alain Robbe-Grillet, L’anno scorso a Marienbad, Einaudi, 1961

M. Dall’Asta, M. Grosoli, Consumato dal fuoco. Il cinema di Guy Debord , ETS, 2011

E. Ghezzi, R. Turigliatto, Guy Debord. (Contro) il cinema, Il Castoro, 2001

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